Nichilismo


Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

29.

L’errore ha reso l’uomo così profondo, delicato e inventivo da produrre una fioritura come quella delle religioni e delle arti. La pura conoscenza non ne sarebbe stata capace. Chi ci svelasse l’essenza del mondo, preparerebbe a noi tutti la più sgradevole delle delusioni. Non il mondo come cosa in sé, ma il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di significato, così profondo e meraviglioso, racchiudendo nel suo grembo tanta felicità e infelicità. Questo risultato porta a una filosofia di negazione logica del mondo: la quale del resto si può armonizzare altrettanto bene sia con un’affermazione pratica del mondo sia col suo contrario.”

31.

Necessità dell’illogicità. - Tra le cose che possono portare un pensatore alla disperazione, c’è la constatazione che all’uomo l’illogicità è necessaria, e che da essa può derivare molto bene. Essa è insita così saldamente nelle passioni, nella lingua, nell’arte, nella religione e, in generale, in tutto quanto dà valore alla vita, che non la si può estirpare senza danneggiare irreparabilmente queste belle cose. Solo uomini troppo ingenui possono credere che si possa trasformare la natura umana in natura puramente logica; ma se dovessero esistere gradi di accostamento a questa meta, quante cose mai non andrebbero perdute per questa via! Anche l’uomo più ragionevole ha bisogno, di tempo in tempo, di un ritorno alla natura, cioè alla sua illogica posizione fondamentale verso tutte le cose.

Volume II

14.

L'uomo, il commediante del mondo. - Ci dovrebbero essere creature più di spirito di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo. Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per trovare, nei gesti tragico-orgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa crea4ira, la sua gioia quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito.

- Persino qui, dove la nostra umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione, qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi - ma francamente neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé - quindi, in nessun caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza.

Forse la formica del bosco è altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco, come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante sepolcro dell'umanità.

16.

Dove è necessaria l'indifferenza. - Nulla sarebbe più assurdo del voler attendere, come tanto spesso viene consigliato, ciò che la scienza stabilirà definitivamente circa le cose prime e ultime, e del pensare (e soprattutto credere!) fino a quel momento nel modo tradizionale. L'impulso a voler assolutamente avere in questo àmbito solo certezze è una inclinazione religiosa, nulla di meglio, - una forma nascosta e solo apparentemente scettica di «esigenza metafisica», abbinata al pensiero recondito che ancora per molto, molto tempo non vi sarà alcuna prospettiva di ottenere queste certezze ultime e che fino ad allora il «credente» avrà diritto di non preoccuparsi dell'intero settore. Queste certezze sugli estremi orizzonti non ci sono affatto necessarie per vivere un'umanità piena e valida: non più di quanto siano necessarie alla formica per essere una buona formica.

Assai più dobbiamo invece chiarire a noi stessi da dove effettivamente provenga quella fatale importanza che per tanto tempo abbiamo attribuito a quelle cose: e a tale scopo ci serve la storia dei sentimenti etici e religiosi. Infatti solo sotto l'influsso di questi sentimenti sono diventate così rilevanti e terribili per noi le più spinose questioni della conoscenza: si sono trascinati negli estremi settori, dove l'occhio spirituale ancora giunge ma senza penetrarvi, concetti come colpa e punizione (e precisamente punizione eterna!): e questo tanto più incautamente quanto più oscuri erano questi settori.

Dai tempi più remoti si è fantasticato con temerarietà laddove non si poteva stabilire nulla, e si sono indotti i posteri a prendere queste fantasie come cose serie e vere, da ultimo con l'esecrabile espediente che il credere valga più del sapere. Ora, a proposito di quelle ultime cose non è necessario opporre il sapere al credere, ma piuttosto l'indifferenza circa il credere e il preteso sapere in questi campi! Tutto il resto ci dev'essere più vicino di ciò che finora ci è stato predicato come più importante - intendo quegli interrogativi: perché l'uomo? quale sorte avrà dopo la morte? come si riconcilia con Dio? o comunque possano essere formulate queste curiosità. Non più di questi interrogativi dei religiosi ci interessano le questioni dei dogmatici filosofici, siano essi idealisti, materialisti o realisti. Tutti quanti ci spingono a prendere una decisione in campi nei quali non è necessario né il credere né il sapere; persino ai più grandi appassionati della conoscenza è più utile che intorno a tutto ciò che è ricercabile e accessibile alla ragione si stenda una fascia acquitrinosa, nebulosa e illusoria; la fascia dell'impenetrabile, dell'eternamente fluido e indefinibile. Proprio dal confronto con il regno dell'oscurità ai margini della terra del sapere aumenta continuamente di valore il chiaro e vicino, vicinissimo mondo del sapere.

- Dobbiamo ridiventare buoni vicini delle cose prossime e non distogliere così sprezzantemente lo sguardo da esse, come abbiamo fatto sinora, verso le nuvole e i mostri notturni. In selve e caverne, in zone acquitrinose e sotto cieli coperti - qui l'uomo è vissuto troppo a lungo come su gradini di civiltà di interi millenni, e vissuto miseramente. Qui ha appreso a disprezzare il presente e i vicini e la vita e se stesso - e noi, abitanti dei più luminosi campi della natura e dello spirito, riceviamo ancora, per eredità, nel nostro sangue qualcosa di questo veleno del disprezzo per ciò che è prossimo.

“Nel regno della morale tutto è divenuto, mutevole, fluttuante, tutto è nel fiume, è vero: ma tutto è anche nella corrente, verso una meta. In noi può ben continuare a operare l’abitudine ereditaria a valutare, ad amare, a odiare erroneamente, ma sotto l’influsso di una sempre maggiore conoscenza essa si indebolirà: un’abitudine nuova, a comprendere, a non amare, non odiare, a guardare dall’alto si radica a poco a poco in noi sullo stesso terreno, e tra qualche millennio sarà forse tanto potente da dare all’umanità la forza di produrre l’uomo saggio e innocente (consapevole della sua innocenza) con la stessa regolarità con cui oggi produce l’uomo non saggio, non giusto, consapevole della propria colpa - ovvero il necessario preludio di quello, non il suo contrario.”

20.

La verità non vuol altro dio all'infuori di sé. - La fede nella verità comincia con il dubbio in tutte le «verità» credute sino a quel momento.

22.

Historia in nuce. - La parodia più seria che abbia mai sentito è questa: «in principio era il non-senso, e il non-senso era, presso Dio!, e Dio (divinamente) era il non-senso».

Aurora (1881)

424.

Per chi esiste la verità. - Fino ad oggi gli errori sono stati le potenze dispensatrici di conforto: ora dalle verità conosciute ci si aspetta lo stesso effetto, e siamo in attesa già da un bel po' di tempo. E se le verità non fossero in grado di produrre proprio questo - cioè di consolare? - Ciò costituirebbe forse un'obiezione nei confronti delle verità? Che cosa hanno queste in comune con le condizioni di uomini sofferenti, intristiti, malati, da dover essere utili proprio a loro? Non costituisce certo alcuna prova contro la verità di una pianta, se si constata che essa non contribuisce per niente alla guarigione di un essere umano ammalato. Ma una volta si era convinti a tal punto che l'uomo fosse il fine della natura, che si supponeva, senza riserve, che anche attraverso la conoscenza niente poteva esser scoperto che non fosse salutare e utile all'uomo, anzi, che non era possibile, né lecita l'esistenza di qualsiasi altra cosa.

La gaia scienza (1882)

109. Guardiamocene bene!

Guardiamoci bene dal pensare che il mondo sia un essere vivente. Dove dovrebbe estendersi? Di che cosa dovrebbe nutrirsi? Come potrebbe crescere e moltiplicarsi? Eppure sappiamo, approssimativamente, che cos'è l'organico: e noi dovremmo interpretare diversamente tutto ciò che di indicibilmente derivato, tardo, raro, casuale percepiamo sulla superficie terrestre, come fanno coloro che definiscono l'universo un organismo? La cosa mi dà nausea. Dobbiamo guardarci già dal credere che l'universo sia una macchina; esso non è certo predisposta per un unico fine e, definendolo macchina, gli facciamo troppo onore. Guardiamoci anche dal presupporre sempre e dappertutto una caratteristica così formale come i movimenti ciclici delle stelle a noi vicine: già un'occhiata alla via lattea fa sorgere il dubbio che, lassù, si verifichino movimenti molto più rozzi e contraddittori, che vi siano astri le cui traiettorie di caduta sono perpetuamente rettilinee, o qualcosa di simile. L'ordinamento astrale in cui noi viviamo è un'eccezione; questo ordinamento e la durata approssimativa che esso determina ha a sua volta permesso l'eccezione delle eccezioni: la costituzione dell'organico.

La caratteristica globale del mondo è invece, per l'eternità, il caos, non nel senso che manchi la necessità, ma nel senso che mancano ordine, struttura, forma, bellezza, saggezza, ovvero le nostre umanità estetiche. A giudicare dalla nostra ragione, i tiri mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono lo scopo segreto e tutto il meccanismo ripete in eterno il suo motivo, che non può essere definito melodia e infine la stessa definizione di «tiri mancati» è già un'umanizzazione biasimevole.

Ma come possiamo biasimare o lodare l'universo! Guardiamoci dall'attribuirgli mancanza di cuore o irragionevolezza o i loro contrari: non è né perfetto né bello né nobile; non vuole diventare niente di tutto ciò; non mira assolutamente a imitare l'umano! Nessuno dei nostri giudizi estetici o morali può coglierlo! Non possiede neppure l'istinto di conservazione, né altri istinti; non conosce legge alcuna. Guardiamoci bene dal dire che in natura esistono leggi. Ci sono solo necessità: non c'è nessuno che dà ordini, nessuno che obbedisce, nessuno che oltrepassa un limite. Sapendo che non ci sono fini, sapete anche che non c'è un caso: solo in un mondo di fini, infatti, la parola «caso» ha un senso. Guardiamoci bene dal dire che la morte sarebbe contrapposta alla vita. Il vivente è soltanto una modalità del morto, e una modalità assai rara. Guardiamoci bene dal pensare che il mondo crei costantemente qualcosa di nuovo. Non esistono sostanze eternamente durature; la materia è un errore pari al dio degli Eleati. Ma quando mai la smetteremo con la nostra cautela e la nostra circospezione? Quando non saremo più oscurati da tutte queste ombre di Dio? Quando avremo completamente dedivinizzato la natura? Quando potremo cominciare a naturalizzare noi uomini, con la natura pura, ri-trovata, ri-redenta?

343. Che cosa comporta per la nostra serenità.

Il più grande evento recente - il fatto che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inattendibile - inizia già a gettare le sue prime ombre sull'Europa. Almeno per quei pochi i cui occhi, e la differenza che essi albergano, sono abbastanza forti e raffinati per questo spettacolo, sembra che per l'appunto sia tramontato un qualche sole e che una qualche fiducia profonda e antica si sia trasformata in dubbio: a loro il nostro vecchio mondo giunge ogni giorno più vespertino, più sfiduciato, più estraneo, «più vecchio». Nel complesso però si può dire che quest'evento è di per sé troppo grande, troppo lontano, troppo in disparte dalle capacità di comprensione di molti perché si possa affermare che anche solo la sua notizia sia pervenuta; figuriamoci poi se molti potrebbero sapere che cosa esso comporti - e come debba crollare, una volta che sia stata seppellita questa fede, tutto ciò che su di essa era costruito, appoggiato, cresciuto: ad esempio tutta la nostra morale europea. Questa lunga pienezza e sequenza di demolizioni, distruzioni, tramonti, crolli ormai imminenti: chi già oggi potrebbe indovinare tutto questo, recitando la parte del maestro e profeta di questa mostruosa logica dell'orrore e preannunziando un oscuramento e un'eclissi di sole di cui probabilmente sulla terra non si è mai visto l'uguale?...

Persino noi, nati per sciogliere enigmi, che per così dire attendevamo sulle montagne, collocati fra l'oggi e il domani e partecipi della tensione, della contraddizione fra l'oggi e il domani, noi primogeniti e prematuri del secolo venturo, che dovremmo già scorgere le ombre che presto avvilupperanno l'Europa: da che cosa dipende che persino noi assistiamo a questo offuscamento senza una vera partecipazione e, soprattutto, senza preoccupazione e paura? Siamo forse ancora troppo soggetti alle conseguenze più immediate di questo evento - e queste immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, non sono assolutamente, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, tristi e rabbuianti, ma costituiscono un nuovo genere, difficile da descrivere, di luce, felicità, sollievo, rasserenamento, incoraggiamento, aurora... In effetti, noi filosofi e «spiriti liberi» ci sentiamo, alla notizia che il «vecchio Dio è morto», come sfiorati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di gratitudine, stupore, presagi, attesa, - finalmente l'orizzonte ci sembra di nuovo libero, posto che non sia chiaro, finalmente le nostre navi possono riprendere il largo, verso ogni pericolo, agli uomini della conoscenza è di nuovo concesso ogni ardimento, il nostro mare, il mare aperto è di nuovo là, e forse non c'è mai stato un mare così «aperto».

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte seconda

Il profeta

« e io vidi una grande tristezza venire sugli uomini. I migliori si stancarono delle proprie opere.

Si diffuse una dottrina e accanto le correva una fede: "Tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto è stato!".

E da tutte le colline riecheggiò: "Tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto è stato! ".

Abbiamo raccolto bene, ma perché tutti i frutti ci marcirono e divennero bruni? Che cosa piovve dalla luna malefica l'ultima notte quaggiù?

Vano fu tutto il lavoro, velenoso è diventato il nostro vino, il malocchio bruciò e ingiallì i nostri campi e i nostri cuori.

Secchi divenimmo; e se cade fuoco su di noi, andiamo in cenere: perfino il fuoco stancammo.

Tutte le fonti si asciugarono davanti a noi, anche il mare si ritirò. Ogni suolo vuole squarciarsi, ma il profondo non vuole inghiottire!

"Ah, dov'è ancora un mare in cui poter annegare": tale echeggia il nostro lamento per depresse paludi.

In verità, siamo già troppo stanchi per morire; siamo ancora desti e continuiamo a vivere in camere mortuarie! »

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

55.

Esiste una grande scala della crudeltà religiosa, con molti pioli, ma tre di questi sono i più importanti. Un tempo si sacrificarono uomini al proprio Dio, forse proprio quelli che si amavano di più ‑ come nel caso dei sacrifici dei primogeniti, caratteristici di tutte le religioni preistoriche, e del sacrificio dell'imperatore Tiberio nella grotta di Mitra, nell'isola di Capri, il più terribile tra tutti gli anacronismi romani. Poi, nell'epoca morale dell’umanità, si sacrificarono al proprio Dio gli istinti più forti che si possedevano, la propria «natura»; questa gioia solenne brilla nell'occhio crudele dell'asceta; dell'uomo entusiasticamente «contronatura». Cosa rimane ancora, infine, da sacrificare? Non si dovette alla fine sacrificare una buona volta tutto quanto vi è di consolante, di santo, di risanatore, ogni speranza, ogni fede in una segreta armonia, in future beatitudini e giustizie? Non si dovette sacrificare Dio stesso e, per crudeltà verso di sé, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla ‑ questo paradossale mistero della estrema crudeltà rimase riservato alla generazione che appunto ora sta avanzando, noi tutti ne sappiamo già qualcosa.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

Prefazione

2.

Ciò che narro è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà avvenire in modo diverso: l'avvento del nichilismo. Questa storia può essere raccontata già ora: poiché qui è al lavoro la necessità stessa. Questo futuro già parla in cento segni, questo destino si annuncia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie già sono tese. Tutta la nostra cultura europea già da lungo tempo si muove con la tortura della tensione, che cresce di decennio in decennio, come se andasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa: come un fiume, che vuole arrivare alla fine, che non si ricorda più, che ha paura di ricordare.

72.

Se il movimento del mondo avesse uno stato finale, questo dovrebbe già essere raggiunto. In realtà l'unico fatto fondamentale è che il mondo non ha nessuno stato-fine; e ogni filosofia o ipotesi scientifica (per esempio il meccanicismo), nella quale un tale stato diventa necessario, è confutata attraverso quest'unico dato di fatto...

Io cerco una concezione del mondo in cui si renda giustizia a questo dato di fatto: il divenire deve essere interpretato, senza ricorrere a tali scopi finali: il divenire deve apparire giustificato in ogni attimo (o non valutabile: il che è lo stesso); non è assolutamente possibile che il presente sia giustificato attraverso un futuro o che il passato sia giustificato attraverso un presente.

La «necessità» non ha la forma di una potenza totale che si propaga e domina, o di un primo motore; ancor meno necessaria per causare qualcosa di pregevole. Per questo è necessario negare una coscienza totale del divenire, un «Dio», per non porre l'accadere sotto il punto di vista di un essere che partecipa al sentire, al sapere, e che non vuole nulla: «Dio» è inutile, se non vuole nulla, e d'altra parte per esso viene posta una somma di dispiacere e di illogicità, che abbasserebbe il valore totale del «divenire»: per fortuna una tale potenza totalizzante non c'è ( un Dio sofferente e sovrastante, un «sensorio totale» e «assoluto spirito» sarebbe la più grande obiezione contro l'essere).

Più rigorosamente: non è possibile ammettere in generale nessun essere, poiché in tal modo il divenire perde il proprio valore e appare persino senza senso e superfluo.

Di conseguenza bisogna porre la domanda: come sia potuta (dovuta) formarsi l'illusione dell'essere.

Parimenti: come tutti i giudizi di valore che si basano sull'ipotesi che l'essere si dia, siano senza valore.

Pertanto si riconosce che questa ipotesi dell'essere è l'origine di ogni denigrazione del mondo; «il miglior mondo, il mondo vero, il mondo "dell'aldilà", la cosa in sé».

1. Il divenire non ha nessuno stato finale, non sbocca in un «essere».

2. Il divenire non è uno stato apparente; forse il mondo dell'essere è un'apparenza.

3. Il divenire ha in ogni momento lo stesso valore: la somma del suo valore rimane uguale a sé: in altri termini: esso non ha nessun valore, perché non c'è qualcosa con cui misurarlo, e in rapporto a cui la parola «valore» abbia senso.

Il valore totale del mondo non è valutabile, di conseguenza il pessimismo filosofico è una cosa comica.

97.

Il nichilista filosofico ha la convinzione che tutti gli accadimenti sono senza senso e inutili; e che non dovrebbe darsi un essere senza senso e inutile. Ma da dove proviene questo: «non dovrebbe»: Ma da dove prendiamo questo «senso»: questo criterio: Il nichilista in fondo è convinto che vedere un essere siffatto, vuoto, vano, renda un filosofo scontento, vuoto, disperato; un tale punto di vista contrasta con la nostra più raffinata sensibilità di filosofi.

Questo conduce alla assurda valutazione secondo la quale il carattere dell'esserci dovrebbe recar gioia al filosofo, se tutto questo avesse ragione di sussistere...

Ora è semplice comprendere come divertimento e dispiacere possono avere nell'accadere soltanto il senso di mezzo; resterebbe così da domandarsi se possiamo in generale vedere il «senso» e il «fine», se il problema della mancanza di senso o del suo opposto non sia per noi irrisolvibile.

99.

Critica al nichilismo

1. Il nichilismo in quanto stato psicologico deve sopravvenire anzitutto quando abbiamo cercato in tutto l'accadere un «senso» che non c'è: così alla fine chi cerca perde il coraggio. Nichilismo è allora l'aver consapevolezza della lunga dissipazione di forze, la sofferenza dell'«invano», l'insicurezza, la mancanza della possibilità di riprendersi in qualche modo, di rassicurarsi ancora su qualcosa la vergogna di fronte a se stessi, come se ci si fosse per troppo tempo illusi... Quel senso potrebbe essere stato: il «compimento» di un altissimo canone morale in tutto l'accadere, l'ordine morale del mondo; oppure il potenziamento dell'amore e dell'armonia nelle relazioni degli esseri; o l'approssimarsi a un universale stato di felicità; o anche l'incamminarsi verso un universale stato del nulla una meta è ancor sempre un senso. Tutte queste forme di rappresentazione hanno in comune che si debba raggiungere qualcosa attraverso lo stesso processo: e ora è chiaro che con il divenire non si ottiene nulla, non si raggiunge nulla... Dunque la delusione su un asserito fine del divenire come causa del nichilismo: sia in riferimento a un fine interamente definito, sia, più in generale, come consapevolezza dell'inadeguatezza di tutte le ipotesi sul fine fin qui formulate, che concernono l'intero «sviluppo» ( l'uomo non è più cooperatore, per non dire centro, del divenire).

Il nichilismo in quanto stato psicologico sopravviene, in secondo luogo, quando abbiamo posto una totalità, una sistematicità e perfino una organizzazione in tutto l'accadere e a fondamento di ogni accadere: così che nella rappresentazione complessiva di una suprema forma di dominio e di governo si bea l'anima assetata di ammirazione e di adorazione ( se è l'anima di un logico, è già sufficiente la assoluta consequenzialità e la dialetticità del reale per conciliare con tutto...). Una sorta di unità, una qualunque forma di «monismo»: e in virtù di questa credenza l'uomo vive in un profondo sentimento di connessione e di dipendenza da una totalità a lui infinitamente superiore, un modus della divinità... «Il bene dell'universo postula l'abnegazione del singolo».., ma guarda, un tale universale non c'è!

In fondo l'uomo ha perso la fede nel proprio valore, se attraverso di lui non agisce una totalità di infinito valore: cioè ha ideato una tale totalità per poter credere nel suo valore.

Il nichilismo in quanto stato psicologico ha ancora una terza e ultima forma. Date queste due convinzioni, che con il divenire non si deve ottenere nulla e che sotto ogni divenire non governa nessuna grande unità, nella quale il singolo possa scomparire completamente, come in un elemento di altissimo valore: non resta come via d'uscita che condannare l'intero mondo del divenire come inganno e inventare al di là di esso un mondo come mondo vero. Ma non appena l'uomo scopre che questo mondo è stato costruito soltanto per necessità psicologiche e che egli non ha per nulla il diritto per fare questo, compare l'ultima forma del nichilismo, che contiene in sé l'incredulità per un mondo metafisico, che si vieta di credere in un mondo vero. In questo modo di vedere si riconosce come unica realtà, la realtà del divenire, ci si vieta ogni genere di via traversa per retromondi e false divinità ma non si sopporta questo mondo, che pure non si vuol negare...

In fondo che cosa è accaduto: Il sentimento della mancanza di valore fu raggiunto quando si capì che non è possibile interpretare il carattere complessivo dell'esserci né con il concetto di «fine», né con il concetto di «unità», né con il concetto di «verità». In tal modo non si ottiene e non si raggiunge nulla; nella molteplicità del divenire manca l'unità onnicomprensiva: il carattere dell'esserci non è «vero», è falso..., non c'è più nessuna ragione di vagheggiare un mondo vero...

In breve: le categorie «fine», «unità», «essere» con le quali avevamo posto un valore nel mondo, sono da noi nuovamente tratte fuori e ora il mondo sembra senza valore...

2. Posto che abbiamo capito che non è più possibile interpretare il mondo con queste tre categorie e che dopo questa constatazione il mondo comincia a essere per noi senza valore, allora dobbiamo chiederci da dove derivi la nostra credenza in queste 3 categorie; cerchiamo se non sia possibile negare loro questa credenza. Una volta che queste 3 categorie siano state svalutate, allora la dimostrazione della loro inapplicabilità al tutto non è più una ragione per svalutare il tutto.

Risultato: la credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo, abbiamo misurato il valore del mondo con categorie che si rapportano a un mondo puramente simulato.

Risultato finale: tutti i valori con cui fino ad ora abbiamo tentato in primo luogo di rendere per noi stimabile il mondo e con cui poi, proprio per questo, l'abbiamo svalutato, essendosi rivelati inapplicabili tutti questi valori, riguardati dal punto di vista psicologico, sono risultati di determinate prospettive dell'utilità per la conservazione e l'accrescimento di forme umane di dominio: e soltanto falsamente proiettati nell'essenza delle cose. Fa ancor sempre parte della ingenuità iperbolica dell'uomo «porre» se stesso come senso e misura di valore delle cose...

103.

Infine si ripongano come si deve i valori umani nell'angolo in cui soltanto hanno diritto a esistere come valori di conventicole. Già sono scomparse molte specie animali; ammesso che anche l'uomo scomparisse, non verrebbe a mancare nulla nel mondo. Si deve essere abbastanza filosofi, per ammirare anche questo nulla ( Nil admirari ).

119.

Per la prefazione

“Descrivo quello che avverrà: l'avvento del nichilismo. Posso descriverlo ora, poiché ora si verifica qualcosa di necessario i segni di ciò sono dappertutto, per questi segni non mancano ormai che gli occhi. Non lodo, né qui biasimo che ciò accada: io credo che c'è una delle crisi più grandi, il momento della più profonda autoriflessione dell'uomo: che poi l'uomo si riprenda, che riesca a dominare questa crisi, è questione della sua forza: è possibile...

L'uomo moderno crede in modo sperimentale ora in questo, ora in quel valore e poi lo lascia decadere: la sfera dei valori superati e decaduti diventa sempre più grande; si sente sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile benché sia stata tentata in grande stile la decelerazione .

Alla fine egli tenta una critica dei valori in generale; ne conosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido... Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli...

149.

Il nichilismo perfetto

suoi sintomi: il grande disprezzo

la grande compassione

la grande distruzione

suo punto culminante: una dottrina che professa come assoluta ed eterna proprio la vita che suscita disgusto, compassione e il piacere della distruzione.

335.

Il principio del nichilismo

il distacco, la separazione dalla terra natia

che comincia con lo spaesamento

che finisce con l'inquietudine.